martedì 31 luglio 2007

Michelangelo Antonioni non c'è più

Michelangelo Antonioni e Wim Wenders
Giuliano
Dopo Ingmar Bergman, e dopo Michel Serrault, oggi arriva la notizia della scomparsa di Michelangelo Antonioni. Lo ricordiamo con due appunti presi da interviste recenti con attrici che hanno lavorato con lui: Jeanne Moreau, per “La notte”, e Jane Birkin, per “Blow up”.

Jeanne Moreau su Antonioni
«La notte ha per me uno strano significato. Avevo incontrato Antonioni nel 1950 quando preparava I vinti. Io ero "pensionnaire" alla Comedie Francaise e lui mi chiese di girare quel film. Ma allora la compagnia aveva regole molto rigide, la sera si recitava e non mi fu permesso di lasciare Parigi. Nel '59 ero più libera e tutto era previsto per girare La notte, tanto che io dissi di no a Visconti per Rocco e i suoi fratelli. Ma Antonioni preferì girare prima L'avventura e io dovetti aspettare un anno». Al suo posto Visconti prese Annie Girardot la quale, grazie a Rocco, iniziò una carriera e incontrò Renato Salvatori. «Quel film trasformò la vita personale di Annie, la sua vita sentimentale. Si vede che quello era il suo il destino».
Le riprese di La notte furono molto dure. «Antonioni parlava pochissimo con Marcello e con me. Si girava sempre di notte fino all'alba. In francese, in inglese e in italiano, ed ero talmente allo stremo delle forze che quando, di giorno, dormivo, sognavo di venire svegliata da qualcuno che bussava alla porta. E mi svegliavo piangendo, implorando di non svegliarmi».
Condizioni fisiche difficili, un set povero. «Sono arrivata a Milano con i miei abiti, tutti comperati da Chanel. Gli abiti che indosso sono i miei. Ma i veri problemi sono stati altri: non fui pagata, e, anzi, Marcello e io pagammo i tecnici romani perché quelli milanesi, naturalmente, ebbero il loro compenso. Ricordo che dopo fui dura con Antonioni, parlai male di lui come regista, ma mi pentii. Un maestro è un maestro, anche se ha un cattivo carattere e idee diverse dalle tue».
intervista a Jeanne Moreau di Laura Putti, Repubblica 15 aprile 2007

Monica Vitti e Jeanne Moreau ne La notte

Jane Birkin su Antonioni
- Il suo primo ruolo cinematografico è stato nel 1965 in The knack (Palma d'Oro a Cannes) di Richard Lester, regista simbolo della Swinging London. Lei avrebbe potuto diventare una delle divine creature del movimento. Perché si è sottratta?
«Non l'ho fatto apposta. La vita è una serie di traiettorie inattese, imprevedibili. Mio marito John Barry era partito in America. Avevo vent'anni, avevo già avuto Kate ed ero molto triste. Sono tornata a vivere con i miei genitori, ma mi pesava. Allora ho accettato di fare un provino per un film. A Parigi. Così ho conosciuto Serge e non sono più tornata».
- Ma prima ancora c'era stato Blow up.
«Dovevo essere solo una comparsa, ma quel film ha segnato la mia carriera. Antonioni è stato di una estrema delicatezza con me e ha sempre seguito la mia carriera. Che grazia, che onestà, che pazienza. Ricordo il provino per Blow up: qualcuno mi chiede di scrivere il mio nome su un muro. Lo scrivo piccolissimo. Mi urlano: più grande! Alla terza lettera ti giri di profilo. JAN, profilo, E B e qualcuno urla ancora: perché fai così? Mi hanno detto di fare così, rispondo. Dice: scrivi forse il tuo nome così grande per attirare l'attenzione su di te? Allora scoppio a piangere farfugliando: mi hanno chiesto di scriverlo grande. E sento: cut! Allora Antonioní è venuto verso di me. "Questo volevo sapere: se lei era vulnerabile. Ora le do tre pagine da leggere, ma ci pensi bene perché nel film dovrà essere completamente nuda". Sono tornata a casa e ho raccontato tutto a John. "Se proprio ti devi spogliare, un film di Antonioni è quello per cui vale la pena farlo", mi ha detto. Ma ha aggiunto: "È comunque so che non lo farai mai. Perfino quando ti spogli a casa spegni sempre la luce". Merde! Mi sono detta. Lo farò».
intervista a Jane Birkin di Laura Putti,Repubblica 13 maggio 2007

Vanessa Redgrave in Blow Up

La musica al cinema: Koyaanisquatsi

Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio (1982) Sceneggiatura di Ron Fricke, Michael Hoening, Gidfrey Reggio, Alton Walpole Musica: Philip Glass Fotografia: Ron Fricke (87 minuti) Rating IMDb: 8.0
Giuliano
Ko-Yaa-Nis-Qatsi, nella lingua degli indiani Hopi, significa: 1) vita pazza 2) vita tumultuosa 3) vita sbilanciata 4) vita che si disintegra 5) uno stato di vita che chiama per un altro modo di vivere.
La profezie Hopi cantate in questo film:
« Se scaviamo cose preziose dalla terra, stiamo chiamando la catastrofe.»
« Prima del Giorno della Purificazione ci saranno ragnatele filate avanti e indietro nel cielo.»
« Un contenitore di ceneri potrebbe essere un giorno scagliato dal cielo, e potrebbe bruciare la terra e far bollire gli oceani.»
“Koyaanisqatsi” è un film di montaggio: detto un po’ brutalmente e con la certezza di fare un torto al gran lavoro di Godfrey Reggio – ma dal punto di vista tecnico è la definizione giusta, perché si tratta dell’assemblaggio di una serie di immagini e filmati che mostrano la Natura così come è quando è lasciata a se stessa, e poi l’opera dell’uomo su di essa.
Sono immagini suggestive, spesso rallentate, sempre spettacolari: e chi ha visto il film penso che se ne ricordi molte, anche a distanza di tempo. Le albe e i tramonti sul Grand Canyon, per esempio; o le immagini di distruzione; e la Luna che si mostra, in tutto il suo splendore, mentre passeggia dietro i grattacieli. E’ un film ipnotico, suggestivo, molto narrativo nonostante tutto, che ha messo alla prova più di uno spettatore ma che nonostante tutto ebbe un buon successo di pubblico.
Rivedendolo penso che debba molto a Kubrick, soprattutto la lunga sequenza finale della disintegrazione del razzo spaziale, con la caduta dei frammenti, ha il suo indubbio precedente nella sequenza finale di “2001 Odissea nello Spazio”, il volteggiare dell’astronave al ritmo del valzer di Johann Strauss.
Ma qui la musica non è quella di Richard o di Johann Strauss, come in Kubrick: l’autore della musica è vivente, si chiama Philip Glass, ed è da considerarsi come vero coautore del film.

Glass, americano, nato a Chicago nel 1937, tra i compositori della seconda metà del Novecento è quello che ha avuto più successo di pubblico, e questo ha dato luogo a molte polemiche. I musicisti che fanno capo a Boulez e Stockhausen gli rimproveravano di scrivere musica che non è musica, di fare capo al pubblico del rock e del pop, di basarsi su ripetizioni infinite di semplici accordi; Glass risponde che è a Boulez e Stockhausen, pur grandi compositori, che si deve il distacco del pubblico dalla grande musica. Inoltre, Glass attinge a un repertorio che non è quello della musica occidentale, ma piuttosto alla musica indiana colta, quella dei raga e dei mantra religiosi: è questo il senso dell’apparente staticità della sua musica. Questo si deve anche all’influenza su Glass di Ravi Shankar, grande maestro della musica classica indiana, che era in America negli anni ’60 e ’70 e che Glass conobbe e frequentò per molto tempo. Ma sarebbe un discorso molto lungo e molto complesso, ed è meglio rimandarlo ad un’altra sede.
Aggiungo solo che capisco tutte le perplessità sulla musica di Glass, ma a me è sempre piaciuto molto. Il suo percorso mi sembra molto onesto e molto personale, e ho avuto la fortuna di vedere qualche frammento abbastanza lungo della sua opera “Einstein on the beach” (Einstein sulla spiaggia) messa in scena con Robert Wilson pochi anni prima di questo film, e l’ho trovata notevolissima.
Rimane da parlare della bellezza delle immagini: una bellezza ipnotica, avvolgente, come la musica di Philip Glass. In effetti, è difficile distinguere la musica dalle immagini, in Koyaanisqatsi: sembrano composte nel medesimo tempo e dalla stessa persona, e certamente non è un effetto dovuto al caso, ma cercato e voluto. E il risultato è di quelli memorabili, anche a distanza di un quarto di secolo.

per le Note e i Commenti:
- Per la cultura indiana, non sono un esperto ma è molto bella l'autobiografia di Black Elk, "Alce Nero parla", edita da Adelphi. Alce Nero (Black Elk) non era Hopi, ma il consiglio di lettura vale lo stesso.

Ko-Yaa-Nis-Qatsi: (from the Hopi language) 1) crazy life 2) life in turmoil 3) life out of balance 4) life disintegrating 5) a state of life that calls for another way of living.

Translation of the Hopi prophecies sung in the film:
« If we dig precious things from the land, we will invite disaster.»
« Near the Day of Purification there will be cobwebs spun back and forth in the sky.»
« A container of ashes might one day be thrown from the sky, which could burn the land and boil the oceans. »

turmoil: agitazione, tumulto, scompiglio
invite: invitare, attrarre, provocare
spun (passato di spin): filare, tessere, far ruotare

Il Gattopardo

Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963) Dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sceneggiatura di Suso Cecchi d'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti Con Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli, Lucilla Morlacchi, Giuliano Gemma, Serge Reggiani Musica: Nino Rota, Valzer Brillante di Giuseppe Verdi Fotografia: Giuseppe Rotunno Costumi: Piero Tosi (187 minuti) Rating IMDb 8.0
Lodes
Di solito cerco di non tenere conto del libro da cui è tratto un film. Nel senso che la lettura di un libro è un fatto personale che scatena emozioni, fantasie, sensibilità, che fanno sì che il lettore costruisca visivamente ciò che sta leggendo. Quindi guardare una trasposizione cinematografica di un libro partendo dalla immaginazione costruita nella lettura, può solo fare dei danni. Danni al nostro immaginario, ma anche a ciò che il regista ha realizzato. Anche il regista nel costruire il film partendo da un libro opera una propria elaborazione, utilizza come tutti noi gli strumenti dell’immaginazione e della sensibilità, magari per uscire completamente dalla traccia iniziale. Tuttavia la prima volta che vidi il Gattopardo dovetti rivedere questo approccio. Don Fabrizio (Burt Lancaster) era proprio Lui, proprio come lo avevo immaginato e così anche gli altri personaggi e l’ambientazione. Questa assonanza mi parve strabiliante: sembrava che Visconti avesse letto con i miei occhi il Gattopardo. Ancora poche settimane fa mi sono riguardato il bel film di Visconti e ho goduto nel rivedere quei personaggi immaginati tanti anni prima nella lettura del libro. Non sono un cinefilo, quindi non so dire se esistono altri casi analoghi, ma a me questo, proprio perché contraddice quella regola generale, è sempre sembrato un grande pregio. Il film però è altro. E’ sicuramente un esercizio stilistico di grande fattura. Capace per questo di portarci dentro quel mondo che la storia ha cancellato. Attraverso la figura di Don Fabrizio ci porta dentro la crisi di un uomo di mezza età che soffre perché il suo mondo si sta dissolvendo e per la contemporanea consapevolezza del volgere della vita verso l’esito finale. Tutto questo c’è nella tristezza di Don Fabrizio, che pur ancora uomo vigoroso sente avanzare il decadimento in un intreccio tra pubblico e privato che aggrava ancor di più il senso della perdita di un tempo mitico in cui, appunto, furono “Leoni e Gattopardi”.
Non basta a Don Fabrizio l’amore per il giovane Tancredi che, proprio perché giovane bello e di successo, non è in grado (non vuole) di rigenerare il casato. Egli è quello che pronuncia la frase del tutto cambi perché nulla cambi. Tancredi in fondo non è altro che la riedizione di quegli antenati che non sapevano leggere e far di conto. Don Fabrizio nel colloquio con il funzionario piemontese (il cavaliere Chevalley di Monterzuolo) è fatalista e premonitore: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.”
Ma perché nulla cambi c’è bisogno di nuovi compromessi/assetti sociali e serve a questo il matrimonio di Tancredi con Angelica Sedara (Claudia Cardinale). Angelica è figlia di Don Calogero (un grandissimo Paolo Stoppa) cioè il rappresentante di quella nuova classe (borghese?) che sostituirà i Leoni e i Gattopardi. Quindi un grande Visconti che ci conduce per mano dentro a questa dissolvenza tragica. Azzardo e dico che Visconti (anche lui veniva da una antica e nobile stirpe lombarda) sente su di sé questo decadimento: in fondo anche se uomo di cultura di sinistra subisce il fascino di una nostalgia per il tempo mitico dei Leoni, dei Gattopardi, dei “Biscioni” che dominavano il bel paese. Una fascinazione che lo travolge e non lascia spazio a nessun riscatto o segnale di speranza. Rimane fedele al libro: non poteva fare diversamente perché la storia ha purtroppo dato ragione a Don Fabrizio. Quindi, al protagonista, nell’ultima inquadratura, non rimane che andarsene, verso una strada buia come se ne sono andati tutti gli altri e al loro posto rimarranno gli sciacalli, le pecore e……i biscioni.

I fratelli Lumiére - Il destino nel cognome

L'arrivo del treno alla stazione di Ciotat
Roby
Parigi, boulevard des Capucines, 28 dicembre 1895: nel seminterrato del Caffè del Salon Indien, al modico prezzo di un franco, i primi 35 spettatori della storia del cinema assistono alla proiezione -sconvolgente per l'epoca- di un treno in arrivo alla stazione di Ciotat. Panico, urla di terrore e fuggi fuggi in sala, nella convinzione che la locomotiva avrebbe travolto tutti i presenti. Praticamente, il primo thriller-horror mai girato. Autori dello strano marchingegno, i fratelli Auguste e Louis Lumiére (luce, in francese), che con la luminosità delle immagini proiettate sul grande schermo/lenzuolo riescono a spaventare, stupire, impressionare... e anche a far ridere, grazie all'antesignana di tutte le scenette comiche di là da venire, Il giardiniere innaffiato (L'arroseur arrosé), chiaro ispiratore di tutti gli Charlot, gli Stanlio e Ollio, i Franco e Ciccio che il futuro riserverà.


Il giardiniere innaffiato

E non manca, benchè si sia ancora agli albori, il genere documentario, con la ripresa degli operai delle officine Lumiére all'uscita dal lavoro. Chissà che tipo di contratto avranno avuto, quegli onesti lavoratori in paglietta e baffetti, a cavallo del loro velocipede (comprato forse col primo stipendio)? E le gentili signore, fra loro, a quali compiti saranno state adibite? Tre settimane dopo quel 28 dicembre di 102 anni fa, l'incasso giornaliero del Salon Indien era salito a circa 2000 franchi: segno che 2000 persone entravano ogni giorno in quella sala sotterranea, si sedevano, si toglievano la paglietta, si accomodavano le sottogonne imbottite e poi, a bocca semiaperta, seguivano il susseguirsi, sul lenzuolone bianco, di quel grande quadro in movimento. Un quadro ancora silenzioso, ma solo in apparenza. Quasi certamente, quei 2000 spettatori sentivano nelle orecchie il fischio del treno, e forse riuscivano a percepire anche il rumore delle risate del ragazzino terribile che per gioco "innaffia" il giardiniere. Poi, di nuovo tutti a casa, in carrozza, a piedi, in omnibus o in bicicletta. Parlando, lungo la strada, di quel fenomeno da baraccone, di quella lanterna magica perfezionata: di quell' invenzione che -secondo i suoi stessi creatori- era destinata a non avere futuro.

L'uscita degli operai dalle officine Lumiére
PS: Se curiosate sul web, scoprirete -come me- che i filmati (della durata di 1 minuto!) dell' Arrivo del treno e del Giardiniere hanno un indice IMDb di ben 7,5! E chi l'avrebbe detto?...

lunedì 30 luglio 2007

Ingmar Bergman non c'è più

Giuliano
Ingmar Bergman non c’è più. Ho appena letta la notizia della sua morte, e cerco di rendergli omaggio meglio che posso, con le sue parole e non con le mie.

Intervista a Ingmar Bergman
BERGMAN: « ORA LO POSSO DIRE: ME NE INFISCHIO DEL PUBBLICO»
di Olivier Assayas, corriere della sera-7, marzo 1994
Molti cineasti che hanno messo tanto di sé nella propria opera si sono anche preoccupati di proteggersi, di dissimularsi. Bergman ha messo tutto nei suoi film. C'è per intero: nudo.
Al tempo stesso illusionista e reo confesso di questa illusione, vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile. La sua opera è chiusa: quest'uomo di teatro ha firmato nel 1982 la sua uscita di scena con un film capolavoro di cinque ore e mezzo in cui si dipana la sua esistenza con i meccanismi più segreti: «Fanny e Alexander». Poi ha voluto aggiungere un post scriptum teorico, il film «Dopo la prova», e un commento, il libro «Lanterna magica».
E oggi, riconciliato con se stesso, non è paragonabile a chi ha portato a termine la sua opera, ma a qualcuno che se ne sia liberato.
- Quando ha iniziato la sua attività artistica?
«E’ difficile dirlo perché, per quanto posso ricordarmi, ho “creato” per tutta la vita. E’ esattamente lo stesso sentimento di quando ero bambino, ben prima di andare a scuola: dopo la colazione aprivo le porte della mia cameretta dove tenevo tutti i miei giocattoli e decidevo come avrei passato la mattina. Il sentimento non è cambiato, non lo dico per razionalizzare le cose né per civetteria, è precisamente così. Sono i gesti a essere cambiati, la scala di valori, il contesto».
- Come è avvenuto il passaggio al cinema? Era un suo desiderio, presente fin dall'inizio?
«Lo è sempre stato, tutta la vita! Ero talmente ossessionato dall'idea di fare del cinema che mi potevano dare qualsiasi merda e dirmi: "Falla", e io la facevo, non so perché. Era quello strano modo di vivere, semplicemente essere là con la cinepresa, e la troupe, l'atmosfera e la luce, gli attori».
- Quando ha cominciato a fare film, desiderava anche scriverli?
«Ho cominciato a lavorare come sceneggiatore in una compagnia, la Svensk Filmindustri. Eravamo sei schiavi a lavorarci. Imparavamo tutto dal metodo americano. Non era una cattiva scuola, bisognava assimilarla. In quegli anni, 1937, 1938, sono arrivati i film francesi: “Il porto delle nebbie" e "Alba tragica" di Marcel Carné, “l bandito della casba" di Julien Duvivier... La nostra compagnia li detestava. A me piacevano, ma era un amore segreto. Era assolutamente proibito, perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare del cinema»
- Guardando i suoi primi film, si ha la sensazione che lei sia altrettanto in sintonia col cinema americano.
«Sono in sintonia con il cinema perché sono uno dei pochi cineasti al mondo che ama vedere i film degli altri. E’ difficile da spiegare perché non avete conosciuto il muto. Il cinema stava per diventare un'arte, perché faceva vedere la più straordinaria scena di teatro, il volto umano: un'ombra sullo schermo, che all'improvviso si volta e ti guarda... E’ la cosa più importante dell'arte del cinema. Puoi vedere gli occhi, le migliaia di piccoli muscoli, la pelle: e non sei disturbato dal suono, puoi essere tu stesso creatore ... ».
- Che cosa ha provato passando dal bianco e nero al colore?
«Col bianco e nero è la stessa cosa che col silenzio. Inviti il pubblico a creare con te. Con un film muto chiedi allo spettatore di udire le voci dentro di sé e di crearle insieme a te. Quando fai un film in bianco e nero, inviti il pubblico a vederne i colori. Penso che al cinema sia molto importante far comunicare il pubblico, farlo partecipare. Il colore sottrae qualcosa».

- Si è mai posto la domanda: “Qui rischio di essere un po' noioso, oscuro... qui rischio di essere frainteso”?
«Certo, ma a volte può essere molto pericoloso. Si è verificato a proposito di "Sonata d'autunno": volevo essere chiaro, dovevo essere capito, dovevo semplificare. Tutto questo era pericoloso per il film. In teatro gli attori sono davanti al pubblico, e tu devi muoverli, aiutarli, dare loro tutte le possibilità affinché siano il più possibile efficaci e comprensibili. In caso contrario, il pubblico si infurierà, oppure non verrà, o ancora farà a meno di guardarli. E l'errore sarà soltanto tuo. A volte, con "L’ora del lupo" e "Luci d'inverno", mi sono ribellato al mio amore per il pubblico dicendomi: “me ne infischio!”
- Qual è stata la reazione dei suoi genitori riguardo alla sua opera?
«In genere ero io che dicevo "quel film potete vederlo" oppure "per favore non andate a vedere quel film". Ma mia madre era così curiosa che credo andasse a vedere anche quelli che non volevo che vedesse. Non ne parlavamo molto. Con i miei genitori ho cominciato a comunicare molto tardi. Mia madre è morta prima di mio padre che le è sopravvissuto solo quattro anni. Prima di morire è stata molto malata, ha avuto tre infarti. Negli ultimi tre anni della sua vita ci siamo avvicinati tantissimo: nonostante tutto il pudore della moglie di un pastore, era una donna forte ed emotiva. Poi, quando mio padre è rimasto solo, ho dovuto aiutarlo in cose pratiche... siamo diventati amici. Mio padre, al contrario di mia madre, era molto timido. Timidissimo. Ma non nel suo lavoro. Credo che lì fosse un genio, ma nella vita era nervoso, molto silenzioso e riservato. Ma ci volevamo bene. Ho passato una vita intera a odiarlo e negli ultimi anni della sua vita ci siamo riavvicinati. La sua onestà mi emozionava, mi toccava, poi all'improvviso è stato con me di una franchezza brutale. Ma quando si è tolto la maschera e abbiamo potuto sederci e parlare delle nostre vite mi sono molto commosso. Ma non penso che i miei film abbiano divertito granché i miei genitori. Certo, erano contenti del fatto che fossi famoso, che la gente andasse da mia madre a chiederle come si sentiva a essere madre di un grand'uomo (ride)».
- Questa riconciliazione tardiva con i suoi genitori ha avuto qualche influenza sulla sua ispirazione?
«Non credo nell'ispirazione: credo che sia un'idea romantica, l’idea che le cose vengano da Dio. Ma se non si crede in nessun dio, se si crede semplicemente nel proprio lavoro, si crede nella propria capacità creatrice, nell'esperienza, nell'applicarsi. Io credo nell'applicazione. Sono molto pedante e cerco, almeno nel mio lavoro, di essere onesto».
- Ma allora lei si applica anche la notte, perché lei sogna e talvolta i sogni diventano..
«No. Questo sta sotto, è la cucina. l'inconscio che lavora la notte, quando si sogna... Non si tratta di applicazione. Ma l'ispirazione è qualcosa che viene dall'esterno, mentre quello che faccio io viene da dentro. Può nascere da riflessioni provocate dalla vita, da cose che capitano, da tutta questa straordinaria qualità dei reale... Dunque, nessuna ispirazione! Soltanto applicazione!».
- Nei suoi film, succede tutt'a un tratto che lei prenda lo spettatore e lo trascini dentro il soprannaturale.
«Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto incoerenti. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre».
- Quali suoi film ama di più?
«Sicuramente "Persona". Poi “Il settimo sigillo": non è un granché ma ci sono affezionato perché ci ho investito tanto amore e immaginazione. Anche "Sussurri e grida" è un buon film... sì, ne sono orgoglioso. E poi "Luci d'inverno". Ecco. Sono tutti qui».
Olivier Assayas e Stig Björkman, tratto da «Conversazione con Bergman» Edizioni Lindau, 1994


I triangoli nel cinema: Trouble in Paradise

Solimano
Nel 1932 Gaston Manescu (Herbert Marshall) è un uomo realizzato. Lestofante d'alto bordo, ha messo a segno diversi colpi a danno di ricchi scemi -e ricche sceme- che affollano i grandi alberghi di Venezia, Istanbul, Parigi. A Venezia, alcuni anni fa, ha conosciuto Lily (Miriam Hopkins), che faceva il suo stesso lavoro, ma nessuno dei due sapeva dell'altro, così a Venezia insorse un equivoco, e cercarono di fregarsi a vicenda -Lily la parte della contessa la sa fare benissimo. Poi si chiarirono, e una cena e una notte sul Canal Grande suggellarono la loro felice intesa da tutti i punti di vista. Ne fu vittima Monsieur François Filiba (Edward Everett Horton): a Gaston bastò spacciarsi per medico, chiedergli di mostrare le tonsille e spruzzare con uno spray (evidentemente negli anni '30 c'era già) un preparato di pronto sonno, e la suite di Monsieur Filiba fu saccheggiata senza metterla a soqquadro.
Ora Lily e Gaston sono a Parigi, e l'obiettivo è Madame Mariette Colet (Kay Francis), giovane vedova del fondatore dei celebri Profumi Colet. Come è logico, vista la situazione, a Gaston tocca la parte di Monsieur Laval, a Lily quella della segretaria. Madame ha smarrito una borsetta, in realtà è stata sottratta da Gaston che si presenta quando Madame mette un annuncio sul giornale, e da cosa nasce cosa. Gaston si fa largo fra due spasimanti: il Maggiore (Charles Ruggles) e toh, Monsieur François Filiba, che guarda Gaston pensando ma questa faccia l'ho già vista, senza però ricordarsi dove. Jacques (Robert Greig), l'amministratore di Madame Colet, cerca di opporsi all'ascesa di Monsieur Laval, ma vengono smascherati i suoi truschini sulla contabilità.

Tutto bene quindi, Gaston si sta facendo largo nel cuore di Mariette Colet, l'obiettivo è una preziosa collana. Solo che c'è un ma. Mariette non è una ricca scema: è giovane, bella, spiritosa, sensibile. Si è fatta largo pure lei nel cuore di Gaston, che non se ne è reso conto. La prima ad accorgersene è Lily, che diventa una belva, sia per professionalità di lestofante -alla collana ci tiene- sia perché è gelosa come una ragazza allevata dalle suore.
Dopo alcune traversie si verrà al dunque: Gaston e Mariette di troveranno di fronte, guardandosi negli occhi, sapendo tutto l'uno dell'altro. Decideranno, sospirando molto, che se la polizia si intromettesse nei loro rapporti sarebbe una cosa di pessimo gusto, non degna di loro, quindi è meglio salutarsi. Gaston dovrebbe essere contento, Mariette gli ha regalato la collana, che si vuole di più? Ma non lo è del tutto, mentre seduto a fianco di Lily va in tassì verso la stazione. Lily lo sa, è molto sveglia oltre a volergli bene, e gli mostra una cosa che gli ha sottratto di tasca da abile borsaiola quale è. Gaston la guarda, e mostra a lei una cosa che le ha sottratto, anche lui è un abile borsaiolo. Ridono insieme, come sempre, ma nello sguardo di Gaston (ex Monsieur Laval) si legge una domanda: ma perché non sono tutte ricche e sceme? Per me, ancora oggi non se l'è scordata, Madame Mariette Colet.

I caratteri nel cinema: Guido Tersilli

Solimano
Nel 1968, al dottor Guido Tersilli (Alberto Sordi) tocca tirare la cinghia. Giovane medico, si trova a sgomitare con i colleghi Bui (Franco Scandurra) e Drufo (Sandro Merli) seguendo il primario (Claudio Gora) che tira ai fatti suoi, spacciando ogni tanto qualche frase di Ippocrate, che male non fa.
Tersilli è ambizioso, e si fa un piano: diventare un medico della mutua con centinaia e centinaia di clienti, se possibile migliaia. E' dura, perché il medico della mutua ce l'hanno tutti, e bisognerebbe che mollassero quello che hanno già per passare a lui, ma il dottor Tersilli ha un punto forte a suo favore: le donne. A principiare dalla fidanzata Teresa (Sara Franchetti), che non è ricca, ma che è disposta a fargli un prestito per un po' delle spese che deve affrontare (ambulatorio etc). Poi la madre (Nanda Primavera), che va in giro per il quartiere lasciando il biglietto da visita del Dottor Guido Tersilli a destra e a manca. Poi le buone suore da cui Tersilli si fa conoscere andando in chiesa la domenica. Rimarrebbe comunque dura, ma c'è un colpo grosso che Tersilli si costruisce con abilità. C'è un medico che sta molto male di salute, ed ogni tanto ci sono delle sostituzioni, così Tersilli ne conosce la moglie (Bice Valori) e riesce ad entrare nelle sue simpatie. In ballo ci sono ben tremila (!) mutuati, ed il medico ne avrà per poco. Tersilli crea abilmente delle aspettative nella donna e quando il medico non c'è più, si ritrova con tremila mutuati tutti suoi. La vedova a questo punto presenta il conto, è lei che ha fatto in modo che le cose andassero così, ma certi conti a Tersilli, spalleggiato dalla madre, non piacciono. Quindi, via anche la vedova, in un sano rapporto di usa e getta. E via anche la morosa Teresa, poverella, c'è Anna Maria (Evelyn Stewart), la figlia di un costruttore, che lo vorrebbe sposare, e così sarà.
Il dottor Guido Tersilli ormai è un uomo arrivato, di mutuati ne ha più del doppio di quelli che potrebbe seguire - se facesse il medico - e così si organizza. E' un continuo va e vieni negli ambulatori - ora ne ha due - e l'invidia di Bui e di Drufo si taglia col coltello. Poi, c'è l'altro business, quello delle operazioni. Non perchè Tersilli operi, ormai a stento sa provare la temperatura, ma perché è lui che dirotta i suoi mutuati dall'uno o dall'altro chirurgo, sono favori che si pagano. Il Paradiso che ha raggiunto è anche un Inferno di impegni, a cui supplisce con professionalità: i suoi tempi-visite sono per la brevità da Guiness dei primati.
Ma un brutto giorno Tersilli non gliela fa più, gli viene una specie di coccolone. Quando Bui e Drufo lo vanno a trovare all'ospedale, divisi fra pietà e soddisfazione, lo vedono lì, nel suo letto, come se fosse in ambulatorio: i mutuati gli telefonano - si vede che gli sono affezionati - e lui per telefono li visita, i tempi si riducono ancora. I due medici che sono rimasti al palo rimangono lì, un po' ammirati un po' svergognati: che cosa ha Tersilli che loro non hanno?
P.S. Uscendo dal cinema la gente diceva due cose: bene, bene, è ora di cantargliele chiare, ai medici, prima cosa, e come è simpatico Alberto Sordi, seconda cosa.
Vent'anni dopo, dovetti sottopormi ad un intervento non difficile ma neppure trascurabile. Chiesi all'ospedale, e mi dissero che dovevo aspettare sei mesi, chiesi ad una casa di cura locale, e mi dissero che in una settimana il problema era risolto. Optai per la clinica, visto che avevo fretta e che la mia ditta mi rimborsava l'80% del costo. Non so se sarebbe stato agevole decidere se non ci fosse stato questo rimborso quasi totale. Tutto andò bene.
Dimenticavo una cosa che credo importante: il medico che mi operò immediatamente nella clinica era lo stesso che mi avrebbe operato all'ospedale dopo sei mesi. Proprio simpatico, Alberto Sordi.

domenica 29 luglio 2007

Love story

Love story, di Arthur Hiller (1970) , Scritto da Erich Segal, Con Ryan O'Neal, Ali MacGraw, Ray Milland, Musiche di Francis Lai, Fotografia di Dick Kratina (99 minuti), Rating IMDb 6,5
Roby
I primi anni '70 coincidono con uno dei periodi più confusi, tempestosi e infelici della mia esistenza, tra gli sconvolgimenti della piena adolescenza ed un brusco cambio di città casa scuola amici ecc., imposto dal lavoro di mio padre. Proprio nel 1971 uscì in Italia questo filmettino girato con mezzi non proprio faraonici, interpretato da attori appena sufficienti -ad esclusione forse del vecchio Ray Milland- e basato sull'eterno triangolo tragico amore-gioventù-morte. Alcune delle mie amiche lo videro, magnificandone la poesia, la bellezza (soprattutto del protagonista) e le musiche struggenti (per le quali Francis Lai vinse l'unico Oscar attribuito al film, malgrado le tante candidature della vigilia). A quell'epoca io andavo al cinema con mia sorella e con una nostra zia zitella (oggi si direbbe single), simpatica trentacinquenne molto più moderna e giovane di quanto non fossi io all'epoca. Dunque, sullo schermo del Gambrinus cominciarono a scorrere le sequenze in cui Oliver Barrett IV e Jennifer Cavalleri non si limitavano a sorridersi o a passeggiare mano nella mano, ma litigavano di brutto insultandosi con termini usati -oggi- dai bambini della materna quando si sbucciano un ginocchio cadendo, ma per me -allora- assolutamente inimmaginabili; per fare la pace, poi, non trovavano di meglio che andare a letto insieme, e l'immagine non sfumava subito sul caminetto o sulla finestra, come nei film che ero abituata a vedere in tv, ma forniva sull'argomento "sesso" particolari molto più approfonditi. E' altamente probabile che adesso, nelle scuole materne di cui sopra, si mostrino filmati di educazione sessuale assai più espliciti. Per me, tuttavia, Love story fu uno choc assoluto, per mia sorella probabilmente anche (il mutismo in cui si chiuse fu molto eloquente), mentre la zia, con gli occhi lucidi e brillanti, continuava ad asserire "ma che bel film, che bella storia, così vera, così attuale...". Io, zitta e confusa, non mi ci raccapezzavo più: ma come, gli adulti si spolmonavano ad ammonire noi ragazzine di non dire parolacce, di stare sedute composte, di non dare troppa confidenza all'altro sesso (e meno che mai di dargli qualcos'altro senza passare per un altare consacrato) e poi, davanti ad una storiella americana tirata per i capelli da tutte le parti si commuovevano e quasi ce l'additavano ad esempio??? "Amare significa non dover mai dire mi dispiace" recitava la frase più famosa del film, riportata milioni di volte su diari, quaderni, poster, bigliettini durante tutto il decennio successivo. Ed io ancora mi chiedo, riflettendo su queste alate parole e su tutto il film: ma che càspita avrà voluto dire???

La musica al cinema: Woodstock

Carlos Santana a Woodstock
Giuliano
All’uscita da scuola, in un pomeriggio della prima metà degli anni ’70, corse voce che in un cinema di Como stava per arrivare un film su un festival rock. Fu così che anch’io decisi di andarci, e mi ritrovai nel cortile del cinema Plinio di Como insieme a tutti gli altri 15-16enni della mia generazione, quasi che ci fosse stata una chiamata generale. Me ne ricordo ancora perché si trattava di una delle mie prime “uscite” da casa, in un clima quasi sessantottino; e ne scrivo qui perché sto provando a rendere l’idea di quanto era difficile vedere un film sul rock in quegli anni.
Non era Woodstock, era il ben più modesto “Stamping ground” (Love and music, 1971), una delusione sotto tutti i punti di vista, anche se i nomi dei rockers presenti (per un raduno tenuto a Rotterdam) erano di primo piano. “Woodstock” non sarebbe mai arrivato nei cinema di Como, non in quegli anni (me ne sarei accorto), e lo avrei recuperato in parte negli anni successivi, quando ormai – a dire il vero – per me aveva perso quasi tutto il suo interesse. Io non avevo più sedici anni, e avevo preso altre strade.
Ma in tv di rock proprio non ce n’era, e neanche in radio. Di questi film si parlava come di qualche mostro favoloso, l’attesa c’era davvero, e c’era anche la voglia di uscire dal circolo vizioso delle Canzonissime e dei Sanremi. Mi ricordo ancora, sempre di quegli anni, la volta che diedero in tv “Pink Floyd at Pompei”: su Raidue (pardon: sul secondo canale), a mezzanotte, in bianco e nero. Roba da star su alzato apposta, col volume basso che se no si disturba, a guardare Roger Waters perso in chissà quali viaggi interstellari, o sussurrare “careful with that axe” a un immaginario Eugenio, tra nubi di fumo che si supponeva colorato, sullo sfondo delle rovine della città sepolta dal Vesuvio. Tutto quello che aveva a che fare col rock era circondato da un alone di disapprovazione, quasi una malattia che aveva a che fare con l’adolescenza e che sarebbe passata, si spera, senza avere a che fare con la droga...
Un mondo inimmaginabile per i sedicenni di oggi. Oggi a passare alle due di notte in tv (un nonsenso assoluto) sono i concerti di musica sinfonica, e il rock e il pop spadroneggiano a qualsiasi ora. Una vendetta della mia generazione, si direbbe: purtroppo, più prosaicamente, la verità è che il mercato ha scoperto che il rock e il pop rendevano e si potevano abbinare meglio agli spot pubblicitari; e nello stesso pentolone degli artisti “proibiti” come Jimi Hendrix, Tim Buckley e Bob Dylan, ha messo anche i reduci da Sanremo e Canzonissima, le Britney Spears, gli Albano e i Vascorossi. E anche sulla droga c’è poco da scherzare: all’epoca era una cosa tremenda, che marchiava inevitabilmente chi ne faceva uso. Oggi le droghe sono anche peggiori, però non marchiano così tanto il fisico: sono ovunque ma non si vedono, e si può far finta che non esistano anche se a farne uso è il tuo compagno di banco.
Ho rivisto di recente il film documentario sul festival rock tenuto a Woodstock nel 1969. Per chi non lo sapesse, si trattò di un evento epico: era uno dei primissimi raduni giovanili, con bande rock memorabili, preceduto dal festival di Monterey (dove Jimi Hendrix si fece conoscere, lasciando tutti a bocca aperta), e seguito dal raduno dell’isola di Wight, in Inghilterra, e dal Concerto per il Bangla Desh voluto dall’ex Beatle George Harrison. Il documentario è bello, ma penso che andrebbe rimontato: le interviste e i commenti sono il più delle volte banali o forzati, e il doppiaggio italiano è spesso fastidioso (le immagini mostrano un ragazzo o una ragazza parlare con calma e sorridere, mentre il doppiaggio enfatizza tutto inutilmente). La sequenza che preferisco, va da sè, è quella della band di Carlos Santana: anche i ritmi latinos erano, all’epoca, una novità assoluta; e quelle che mi sono rimaste di più nella memoria sono quelle relative all’immensa quantità di fango nei campi intorno al palco. Ma per me Woodstock è rimasto qualcosa di lontano: ero troppo piccolo quando si fece il festival, roba da fratelli maggiori; e del rock mi sarei stancato presto. Troppo ripetitivo, e troppa roba commerciale...

Stamping ground – Love and music (1971, Rotterdam): Byrds, Canned Heat, Soft Machine, Pink Floyd, Dr. John, Santana, It’s a Beautiful Day, Country Joe Mc Donald, T-Rex.
Woodstock (1970, USA): Richie Havens, Joan Baez, The Who, Joe Cocker, Sha Na Na, Country Joe & The Fish, Crosby Stills & Nash, Ten Years After, Santana, Sly and the Family Stone, Jimi Hendrix, Jerry Garcia... (regia: Michael Wadleigh)

Joan Baez e Bob Dylan a Monterey

I guerrieri della palude silenziosa

Southern Comfort di Walter Hill (1981) Sceneggiatura di Michael Kane, Walter Hill, David Giler Con Keith Carradine, Powers Boothe, Fred Ward, Franklyn Seales, Peter Coyote, Brion James Musica: Ry Cooder Fotografia: Andrew Laszlo (106 minuti) Rating IMDb: 7.0
Nicola
Domenica scorsa, durante un breve giro in bici per la piana, decisi di fare una strada diversa dal solito: al guado sul torrente in secca prendere il torrente verso monte, raggiungere l'altro guado due chilometri più in su e tornare a casa per una stradina poco trafficata. Dopo neanche duecento metri il letto del torrente iniziava a essere ostruito da pozze d'acqua stagnante sempre più lunghe e profonde, coperte da grossi insetti pattinatori che facevano lo slalom tra mucillagini e alghette; un po' più in là m'imbattei in alcuni pioppi caduti attraverso il torrente, da scavalcare portandosi dietro la pesante bicicletta. Mezz'ora dopo, immerso nell'acqua putrida fino alla cintola, senza alcuna possibilità di risalire la riva e arrivare ai campi attraverso i venti metri di fitto roveto, e a pressapoco equidistante tra i due guadi, mi chiesi se mai un pirla si fosse trovato in una situazione simile. Non trovai alcun esempio reale, ma mi venne in mente un vecchio film, di cui passo ora a raccontarvi la trama.
Il titolo originale è Southern Comfort, "comodità del Sud", che è il nome di un famoso drink della Louisiana, ma che soprattutto si riferisce ironicamente all'estrema scomodità in cui si trova una squadra della Guardia Civile americana durante un'esercitazione nel bayoux, le paludi del Sud abitate dagli schivi cajun, pionieri francofoni ancor oggi concentrati nelle foreste e nelle campagne intorno a Lafayette, Louisiana. La scomodità viene dal fatto che il gruppo s'è perso nelle paludi, è comandato da un sergente imbecille ed è composto in parte da cretini che si credono di giocare ai soldati (la Guardia Civile è un corpo volontario di difesa territoriale, erede delle milizie rivoluzionarie di Washington, ma spesso -secondo un luogo comune americano- non all'altezza del compito e del ruolo). E la situazione dei soldati peggiora quando, per attravesare un tratto di palude, rubano delle canoe, vengono sorpresi da un cajun, per spaventarlo gli sparano (a salve: è un'esercitazione) e il primo del gruppo viene abbattuto (a pallettoni: è un cacciatore).
Da questo punto in poi il film diventa un'avventura di tipo vietnamita (o western-crepuscolare), ma vissuta in casa, eppure a confronto con degli "stranieri" -i padroni di casa: gente della foresta che parla un'altra lingua. I soldati scontano l'isolamento, l'ignoranza del territorio e l'assenza di leadership. Tranne due (come si conviene: i meno esaltati, i più pratici), tutti gli altri finiscono uccisi dai cajun o da una natura matrigna a chi non la conosce.
In una breve pausa silvestre due dei soldati arrivano a un villaggio cajun, proprio mentre si sta preparando una festa. In quel momento la bella colonna sonora di Ry Cooder lascia spazio a un pezzo di musica cajun, tra le più allegre e piacevoli del folk statunitense. Si vede la preparazione di alcuni piatti della cucina cajun, come in una scena di un altro film "meridionale" -Angel Heart di Alan Parker-, che è una delle poche sopravvivenze degne di nota e d'assaggio della cucina locale americana, spazzata via dall'industrial comfort, dal pane a cassetta e dalla zuppa Campbell in barattolo immortalata da Warhol.
Anni fa mi capitò di visitare la Louisiana e in un ristorante locale (coda d'alligatore fritta il piatto forte) conobbi un cantante cajun, che poi rividi a St. Louis, durante un tour che doveva portarlo a Montreal, il cuore culturale e politico dell' America francofona. Mi diceva che il film di Hill dalle sue parti, dov'era stato girato -e della cui location avevano fatto un richiamo turistico- non era stato visto molto bene: troppi stereotipi e pregiudizi. A me invece i cajun del film erano parsi fascinosi: proprio a causa loro avevo indirizzato quella vacanza in Louisiana.
Il titolo italiano del film, di rara idiozia (che sarà mai una "palude rumorosa"?), intendeva ricordare allo spettatore che il regista è lo stesso di Warriors, un gioiellino del film d'azione, purtroppo preso a modello di stile dalle gang di cretini d'ogni città dell'occidente, come già era accaduto per Arancia Meccanica.
Il Southern Comfort è una mistura di whiskey, brandy di pesca, arancia, vaniglia, zucchero e cannella.

sabato 28 luglio 2007

La musica al cinema: La valle del peccato

Solimano
Ho ricostruito, anche se non del tutto, la presenza della musica in Vale Abraao di Manoel de Oliveira. Ci sono innanzitutto una serie di musiche di autori che in qualche modo fanno riferimento al Chiaro di luna. Gli autori sono Beethoven, Schumann, Chopin, Fauré e Debussy.
Ma già qui si presenta un problema, quello del Chiaro di luna di Beethoven così intensamente presente nel film. Si tratta del primo tempo della sonata per pianoforte n.14 in Do diesis minore Opera 27 n.2, scritta nel 1801 e dedicata alla contessa Giulietta Guicciardi.
Beethoven la denominò "Quasi una fantasia", il titolo "Chiaro di luna" arrivò nel 1832 o nel 1836 per merito (o colpa?) di Ludwig Rellstab. Non solo, ma la stessa definizione "Quasi una fantasia" fu apposta da Beethoven non come definizione preromantica, ma con riferimento al fatto che è una sonata anomala: in tre tempi, invece dei quattro usuali per lui e con per primo tempo un adagio invece che un allegro, precisamente, un adagio sostenuto.
Sia queste considerazioni oggettive, sia la data di composizione, molto antecedente a quella dei successivi e a loro modo veraci "Chiaro di luna" comportano una separatezza: da una parte sta Beethoven, dall'altra Schumann, Chopin, Fauré e Debussy. De Oliveira ne è ben cosciente, ed infatti inserisce Beethoven nelle parti del film in cui un destino ineluttabile si compie, quando Ema accetta pienamente di essere se stessa, col carico di sofferenza ed alla fine di morte che questo essere se stessa comporta.
L'andante sostenuto di Beehoven accompagna così impeccabilmente le fasi di decisionalità sentimentale di Ema, gli altri "Chiaro di luna" seguono il divenire quotidiano, le oscillazioni dei sentimenti e dei sensi.
Stranamente, non sono riuscito ad identificare per ora le composizioni di Schumann e di Chopin, anche se nell'orecchio l'ho sentita, la voce dei due, simili ma diversi, sempre personalissimi, mentre sono riuscito ad identificare Fauré e Debussy. Fauré è presente con due composizioni: "Après un reve" dalle "3 Mélodies op. 6", e "Clair de lune" dalle "2 Mélodies op. 46". Debussy è presente con il "Clair de lune " della "Suite bergamasque". Poi c'è Richard Strauss con un brano dall'opera "Capriccio", e Don Byas e Coleman Hawkins durante una festa con ricevimento e ballo.
L'Aria sulla quarta corda di Bach è invece un vero e proprio episodio del film, suddiviso in due tempi: il giovane Narciso la suona sul suo violino, Ema lo guarda con intensità crescente, poi con salto temporale, Narciso la suona ancora, seduto sul letto a schiena nuda, ed a un certo punto Ema gli dice di non suonare più, i suoi pensieri ed i suoi sentimenti sono già altrove.
C'è infine un ritmo, più che una musica, che percorre il film: il tum-tutum del treno che corre sulla ferrovia che costeggia il Douro. L'ho sentito, nel film, come il banale ma inevitabile presentare i conti che la vita fa sempre, la vita è anche questo farsi privo di obiettivo e di significato: i titoli di coda sono tutti di questo tum-tutum. Ma quando i titoli di coda ancora non ci sono, l'andante sostenuto di Beethoven dice fermamente la sua, perché fa a pieno titolo parte della vita, finché c'è. Come si vede, negli autori mancano gli italiani, ma un Chiaro di luna italiano lo vorrei ricordare, prima del Chiaro di luna di Friedrich...

Dolce e chiara e' la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t'accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze, e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
...
Giacomo Leopardi, 1820

Caspar David Friedrich: Arbre au clair de lune, 1824

Vladimir Nabokov al cinema (2)

Giuliano

Nabokov e Kubrick
Vladimir Nabokov raccolse in un volume le sue interviste, concesse in anni diversi a giornali e televisioni diverse. Il libro è “Intemperanze” (ed. Adelphi); trascriviamo qui le parti relative al film che Stanley Kubrick trasse da “Lolita”.

1962, intervista alla BBC
- Oltre ai libri in russo lei ha scritto un intero scaffale di libri in inglese, e tra questi soltanto Lolita è celebre. Non le dà fastidio essere “quello di Lolita”?
« No, direi di no, perché Lolita mi sta particolarmente a cuore. E stato il mio libro più difficile - trattava un tema così distante, così remoto dalla mia personale vita emotiva che ho provato un piacere particolare nell'usare le mie doti combinatorie per renderlo reale.»
-Si è stupito dello strepitoso successo del libro?
«Mi ha stupito già il fatto che il libro fosse pubblicato.»
- Aveva qualche dubbio sulla pubblicabilità di Lolita, visto il suo argomento?
« No; in fondo, quando si scrive un libro, si immagina generalmente che venga pubblicato, in un futuro più o meno lontano. Ma la pubblicazione mi ha fatto piacere.»
- Qual è stata la genesi di Lolita?
« È nata molto tempo fa, a Parigi, doveva essere il 1939; il primo, piccolo palpito di Lolita lo sentii a Parigi nel 1939, o forse all'inizio del 1940, in un periodo in cui ero costretto a letto da un violento attacco di nevralgia intercostale, un disturbo dolorosissimo - non molto dissimile dalla proverbiale spina nel fianco. Per quel che ricordo, l'iniziale brivido di ispirazione fu provocato in modo alquanto misterioso dalla notizia - riportata, mi sembra, da Paris Soir - che una scimmia dello Zoo di Parigi, dopo mesi di blandizie da parte degli scienziati, aveva fatto finalmente il primo disegno a carboncino dovuto a un animale, e questo schizzo, riprodotto sul giornale, rappresentava le sbarre della gabbia di quella povera creatura. »
- Humbert Humbert, il seduttore di mezza età, ha un modello che lo ha ispirato?
« E un uomo inventato da me, un uomo con un’ossessione, e penso che molti dei miei personaggi abbiano ossessioni improvvise, ossessioni di tipo diverso: ma Humbert non è mai esistito. Ha cominciato a esistere quando io ho finito il libro. Mentre scrivevo il libro, mi capitava di leggere qua e là nei giornali storie d'ogni genere a proposito di maturi signori che davano la caccia a ragazzine: una coincidenza interessante, se vogliamo, ma questo è tutto.»
- E Lolita ha un modello?
« No, Lolita non ha avuto alcun modello. È nata nella mia testa. Non è mai esistita. Di fatto, non sono un gran conoscitore di ragazzine. A ben pensarci, credo di non conoscerne neanche una. Qualche volta ne ho incontrate in società, ma Lolita è una creatura della mia immaginazione.»
- Perché ha scritto Lolita?
« Mi sembrava una cosa interessante da fare. Perché ho scritto gli altri libri, in fondo? Perché mi faceva piacere, perché era difficile. Non mi prefiggo scopi sociali, né messaggi morali; non ho idee generali da sfruttare, mi piace semplicemente comporre enigmi con soluzioni eleganti.» (...)

1962, conferenza stampa
- Vuole parlare di Lolita?
«Be', no. Tutto ciò che avevo da dire su questo libro l'ho detto nella postfazione aggiunta all'edizione americana e inglese.»
- È stato difficile scrivere la sceneggiatura di Lolita?
«La cosa più difficile fu saltare il fosso - decidere di affrontare l'impresa. Nel 1959 fui invitato a Hollywood da Harris e Kubrick, ma dopo parecchie riunioni con loro decisi che la cosa non faceva per me. Un anno dopo, a Lugano, ricevetti un telegramma in cui mi pregavano di ripensarci. Nel frattempo, non so perché, aveva preso forma nella mia immaginazione una specie di sceneggiatura, e perciò mi rallegrai che Harris e Kubrick mi rinnovassero l'offerta. Di nuovo mi misi in viaggio per Hollywood e lì, sotto gli alberi di jacaranda, lavorai per sei mesi al progetto. Trasformare un proprio romanzo in una sceneggiatura cinematografica è un po' come fare una serie di schizzi per un quadro finito e incorniciato da molto tempo. Scrissi nuove scene e nuovi dialoghi nel tentativo di preservare una Lolita che per me fosse accettabile. Sapevo che la sceneggiatura, se non la scrivevo io, l'avrebbe scritta qualcun altro, e sapevo anche che in questi casi, per bene che vada, il prodotto finale, più che un amalgama, è uno scontro di interpretazioni. Non ho ancora visto il film. Forse sarà come un'incantevole foschia mattutina spiata attraverso la rete di una zanzariera, o forse come le curve di una strada panoramica per le ossa del passeggero orizzontale di un'ambulanza. Le sette o otto riunioni che ebbi con Kubrick mentre scrivevo la sceneggiatura mi hanno lasciato l'impressione che egli sia un artista, e su questa impressione si fondano le mie speranze di vedere una Lolita plausibile il 13 giugno a New York.»
- A che cosa sta lavorando in questo momento?
«Sto leggendo le bozze della mia traduzione dell'Eugene Onegin di Pushkin, un romanzo in versi che, con un mostruoso commento, sarà pubblicato dalla Bollingen Foundation in quattro bei volumi di oltre cinquecento pagine ciascuno.» (...)

venerdì 27 luglio 2007

Gli oggetti nel cinema: la cucina


Il pranzo di Babette

Roby
Fra me e la cucina -intesa sia come stanza della casa ove si preparano i pasti, sia come elettrodomestico atto a tale scopo, sia come arte culinaria in genere- esiste una sorta di tacito patto di non-aggressione, una specie di accordo non scritto secondo il quale, se lei non disturba me, io non importunerò lei. Ho un'ammirazione infinita ed un grandissimo rispetto per tutti coloro che dichiarano di realizzarsi, di rilassarsi e persino di divertirsi (sic) sfaccendando tra pentole e fornelli. A me, il solo pensiero che siano già le 7 di sera e che debba per forza accendere il gas in previsione della cena dà i sudori freddi... cosa del resto non deprecabile, viste le temperature attuali. Il cinema, invece, ci ha offerto vari esempi di personaggi (non solo femminili) che riescono ad esprimersi al meglio attraverso le loro creazioni gastronomiche. La Babette di Stephane Audran, tanto per cominciare, è una vera sacerdotessa del rito pagano del pranzo, ed il film di cui è protagonista è davvero un bocconcino prelibato: nè le puritane zitelle sue datrici di lavoro, nè gli spettatori più attenti alla linea possono trattenersi, alla fine, dal dichiararsi sazi, materialmente e spiritualmente.
Chocolat

Così come irresistibili sono le praline che Juliette Binoche, la Maya di Chocolat, realizza nel retrobottega del negozio, mescolando nei suoi pentolini quantità ben dosate di cioccolato fondente, burro di cacao e spezie varie, uniti ad ingredienti segreti, capaci di addolcire non solo il palato ma anche -e soprattutto- il cuore. Più struggente, nella Finestra di fronte, l'abilità pasticcera di Massimo Girotti, che attraverso i capolavori creati nel silenzio della sua cucina riesce a comunicare con gli altri, proprio quando la malattia di Alzheimer gli impedisce ormai di farlo a parole. Le rappresentazioni cinematografiche dell'uso di fornelli, pentole e cibi vari non finiscono certo qui, e molti ricorderanno, ad esempio, film come La grande abbuffata: ma lì è presente una venatura amara, tragica, che in questo momento non mi è congeniale. Soffro già abbastanza pensando che il pomeriggio avanza e che fra poco la spada di Damocle del pasto serale si abbasserà inesorabilmente sul mio capo, accompagnata dalla consueta, inquietante richiesta da parte di tutta la famiglia: "E allora, che c'è di buono per cena???".

La finestra di fronte

Le coppie nel cinema: Il buio della mente

Solimano
Siamo nel 1995. Nei pressi di Saint Malo, Sophie (Sandrine Bonnaire) viene assunta come domestica da Catherine Lelievre (Jacqueline Bisset). In breve tempo si fa rispettare da tutta la famiglia per lo scrupolo con cui svolge il suo lavoro, anche se la trovano strana, perché non parla quasi mai. Sophie conosce casualmente Jeanne (Isabelle Huppert) che è impiegata alle poste nel paese. Prima diventano amiche, poi quasi inseparabili. Solo che l'amicizia non è ben vista da Georges Lelievre (Jeanne-Pierre Casssel), che ha il sospetto che Jeanne apra le lettere prima di consegnarle. I due figli dei Lelievre, Melinda (Virginie Ledoyen) e Gilles (Valentin Merlet) cercano di evitare questo tipo di discussioni, ma Jeanne è una che prende le cose di punta, e provoca ogni volta che uno dei Lelievre entra nell'ufficio postale.
Sophie e Jeanne cercano di socializzare nel paese, aiutano persino il prete (Jean-François Perier) quando si tratta di distribuire abiti usati, ma Jeanne, che si accorge che gli abiti usati sono praticamente degli stracci, li butta all'aria ridendo e sfottendo: basta anche con la parrocchia. I Lelievre cominciano ad esssere meno contenti di Sophie perché qualche volta le hanno lasciato in cucina un biglietto col riepilogo delle cose da fare e lei si è comportata come se non ci fosse: la mettono alle strette, e Sophie dice che ci vede poco, non c'è problema, le rispondono, andiamo insieme dall'oculista per gli occhiali. La verità è che Sophie è analfabeta e non vuole che si sappia perché teme di perdere il lavoro.
C'è anche un'altra verità, che le due amiche scoprono, e che rafforza la loro amicizia: Sophie a suo tempo è stata accusata di infanticidio e Jeanne di parricidio, però se la sono cavata; è strano che siano diventate così amiche prima di saperlo, forse è una cosa che sentivano dentro. La situazione in casa Lelievre si inasprisce, finché decidono di licenziare Sophie.
Quella sera, Jeanne la viene a trovare di nascosto, per consolarla e per trovare il modo di vedersi ancora in futuro. Mentre sono in cucina, sentono che al piano di sotto suonano della musica che a loro non piace (è il Don Giovanni di Mozart, trasmesso per televisione). I Lelievre lo hanno già fatto altre volte: si mettono tutti seduti nello stesso divano ad ascoltare quella maledetta musica, e sono anche contenti, mentre loro due rischiano di essere ridotte alla disperazione. Bisogna fare qualcosa, non si può lasciargliela passare: Sophie e Jeanne si alzano, caricano a pallettoni due fucili da caccia del signor Lelievre, escono dalla cucina, scendono giù per le scale, e di fronte ai Lelievre sparano, e li uccidono tutti e quattro. E non lo fanno di completa sorpresa, vogliono che i Lelievre si rendano conto che stanno per morire.
Poi si mettono d'accordo di dove trovarsi, e Jeanne parte con la macchina (è l'unica che guida), per provvedere a portarsi dietro un po' di roba. Ma appena uscita dal parcheggio va a sbattere contro la macchina del prete e muore sul colpo. E' partito il registratore su cui avevano registrato tutto: si sente la musica di Mozart, poi le voci e gli spari, poi ancora la musica senza più voci di persone. Sophie la ricovereranno in un manicomio criminale.
P.S. Il titolo francese del film è La cérémonie.

I luoghi del cinema: La valle del peccato

Solimano
I grandi fiumi iberici sono cinque. Escludiamo l'Ebro, che si getta nel Mediterraneo, gli altri si gettano nell'Atlantico. Sono il Guadalquivir, il più breve, ma assai ricco d'acqua perché scende dalla Sierra Nevada, sopra Granada. E' il fiume dell'Andalusia. Poi ci sono la Guadiana, il fiume meno noto, il Tago, che in Portogallo chiamano Tejo e sfocia a Lisbona, il Duero, con un grande bacino imbrifero, che per cento chilometri fa da confine fra Spagna e Portogallo, in cui è chiamato Douro, poi finisce nell'Atlantico ad Oporto con un lungo estuario attraversando colline a volte ripide, spesso verdeggianti di vigneti, a volte anche di palme. Un paesaggio strano, che come percorso d'acqua assomiglia ad un fiordo, come natura ad un paese del sud, però non arso dal sole.
Diversi tratti sono chiamati valli, e qui c'è la Vale Abraao (valle d'Abramo) che dà il nome al libro di Agustina Bessa-Luìs ed al film di Manoel de Oliveira, tradotto maldestramente in "La valle del peccato", ma tant'è... abbiamo dei traduttori molto peccaminosi.
L'immagine che ho scelto non corrisponde con piena esattezza a com'è la Vale Abraao nel film, in cui è meno aspra, più verde, più vicina all'acqua, ma mi ha affascinato la grande pianta a foglie caduche che domina dall'alto, ci ho visto Ema, che però non cerca dominio ma un Sé che non sia il banale sé quotidiano.
Nella valle di Abramo c'è la casa di Paulino Cardeano (Ruy de Carvalho) il padre di Ema (Leonor Silveira), che da giovinetta si affacciava nella veranda che dà sulla strada, causando innumeri frenate delle auto, i cui guidatori erano turbati dalla sua bellezza, ed il sindaco intervenne col padre che lo mandò al diavolo. C'è anche la casa di Carlo Paiva (Luis Miguel Cintra), il medico che Ema sposa, casa in cui viene osteggiata dalle due sorelle di Carlo, ma in cui ha il continuo sostegno di Ritinha (Isabel Ruth), la lavandaia sordomuta e vergine, che le vorrà bene sino alla fine.
Di là del fiume c'è il Vesuvio, la villa di Fernardo Osorio (Diogo Doria), fascinoso, ricco, cosmopolita e inaffidabile, l'amante di Ema che lo raggiungerà spesso per trascorrere qualche giorno a casa sua. Andranno in motoscafo sul fiume, fra l'invidia, l'ammirazione e le maledizioni di tanti che sanno e fanno finta di non sapere. E poi ci sono i posti degli amanti più giovani di lei, prima Fortunato (Filipe Cochofel), un popolano bello e timido, che anni dopo farà il rivoluzionario nelle ex colonie portoghesi, poi Narciso (Joaquim Nogueira), il giovanissimo figlio di Maria de Loreto (Gloria de Matos), l'unica donna che osi fronteggiare Ema, che però si prenderà Narciso violinista, dopo averlo sentito suonare l'Aria sulla quarta corda di Bach.
E ci sono i vigneti, dove Ema vestita di bianco distrae i vignaioli che stanno dando il verderame alle viti. Ema si siede, non senza aver estratto un fazzoletto dalla borsetta appoggiandolo sul gradino. C'è l'aranceto, con la macchina da presa che sfiora i frutti mentre Ema lo attraversa per l'ultima volta avviandosi all'imbarcadero. C'è una trave marcita, nel pontile, lo sanno tutti, anche Ema, ma quella volta finge di dimenticarsene. E ci sono le due figlie di Ema, che sono divenute due donne bellissime, una in particolare, attenta alle persone in età come la madre lo è ai più giovani.
C'è il treno, che percorre la valle costeggiando il fiume, e che fa parte della colonna sonora, il suo tum-tutum scandisce i tempi delle tre ore del film, e sarà la colonna sonora unica dei titoli di coda, dopo che nei dieci minuti finali del film ha imperato il Chiaro di luna di Beethoven. Dopo aver visto e rivisto il film, non c'è niente da fare, la bellezza della Vale Abraao farà parte di noi, ma occorrerebbe avere lo sguardo di Ema per capirla del tutto.

giovedì 26 luglio 2007

Il libro della giungla

The Jungle Book di Walt Disney (1967) Dal libro di Rudyard Kipling, Sceneggiatura di Larry Clemmons, Ralph Wright, Ken Anderson, Vance Gerry, Regia di Wolfgang Reitherman Musica: George Bruns, Richard e Robert Sherman, Terry Gilkyson (78 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
-It was seven o'clock of a very warm evening in the Seeonee hills when Father Wolf woke up from his day's rest, scratched himself, yawned, and spread out his paws one after the other to get rid of the sleepy feeling in their tips. Mother Wolf lay with her big gray nose dropped across her four tumbling, squealing cubs, and the moon shone into the mouth of the cave where they all lived. "Augrh!" said Father Wolf. "It is time to hunt again."-
-Erano le sette di una sera molto calda, sulle colline di Seeonee, quando Padre Lupo si destò dal suo riposo quotidiano. Si grattò, sbadigliò e stirò una dopo l'altra le zampe per scioglierle dal torpore. Mamma Lupa se ne stava distesa col grosso muso grigio abbandonato sui suoi quattro cuccioli che ruzzolavano squittendo, e la luna entrava dalla bocca della tana dove la famigliola viveva. "Augrh!" disse Padre Lupo. "È ora di rimettersi in caccia."-

Come si vede, perde poco anche tradotto, tanta è la vigorìa di Kipling nell'inizio del Libro della Giungla, e continuerà così, perché leggere il primo e il secondo Libro della Giungla era una esperienza epica, altro che animalistica carina, come credono gli sprovveduti che non hanno letto Kipling all'età giusta, da ragazzi alla soglia dell'adolescenza. Non credo che lo facciano oggi, io ebbi quella fortuna e la capii quasi del tutto anni dopo, quando ebbi l'esperienza dello yoga. Non sono documentato, ma credo proprio che Kipling avesse acquisito l'attitudine giusta di vedere il mondo degli animali, vederli come dei nostri consanguinei: "Siamo dello stesso sangue, tu ed io!". In tutti gli asana yoga che ho imparato, ho ritrovato l'animale che insegnò con naturalezza quell'insieme di movimenti a volte faticosi ma sempre armoniosi.

Per me ragazzo Mowgli, Baaghera, Baloo, Akela, Shere Khan, Kaa, Tabaqui, i cani rossi del Deccan erano un mondo di cui avrei voluto fare parte, un mondo di pericoli e di libertà, di fame da soddisfare e di fantasia da sfrenare. Oggi, credo che pochi, ragazzi e adulti, leggano Kipling. Non sanno cosa si perdono, il piacere con cui si divorano quelle pagine con immedesimazione totale.
In Kipling si verifica veramente l'incontro fra Occidente ed Oriente, e si raggiunge proprio qui, più che nei suoi libri etichettati per adulti. Libri molto belli, ma che non danno questa esperienza così unica. La fase prima della adolescenza non era facile, per tanti motivi, non era certo un paradiso né di famiglia né di amici, ma il cuore che avevo dopo pochi minuti di lettura era quello di uno che al mondo voleva starci, e starci bene.
L'amore per la vita, ecco cosa insegna Kipling, e i ragazzi ne hanno bisogno, e di maestri ne trovano pochi, in genere pedanti o velleitari, privi di gusto e di rispetto per la prima regola, quella di essere un buon animale. Siamo talmente lontani da questa ovvietà che ne ridiamo o ce ne indignamo, mentre la prima regola è quella, e Kipling la insegna in un modo che apparentemente si scorda, ma in realtà dura nel tempo.
Dopodiché, che dire del bel cartone animato, l'ultimo che fece Disney prima di morire. E' ben fatto, ben costruito, con disegni meravigliosi, fa anche ridere, e sono riuscito ad averne delle belle immagini, e se lo vedono bambini e bambine sicuramente si divertono, ed i genitori ancora di più, ma se qualcuno riesce ancora a far leggere il primo ed il secondo Libro della Giungla ad un ragazzo di dieci anni, gli fa un grande regalo. Quel ragazzo, pur nelle traversie della vita, avrà un centro dentro di sè, un cuore di luce a cui potersi rivolgere non come pensiero pensato ma come forza di vita prima del pensiero. Ma non so, veramente non so, se oggi questo sia ancora possibile o se, come mi auguro - non sono un tifoso - ci siano degli autori più nuovi che conseguano lo stesso del vecchio Kipling, so che essere nella propria vita quella cosa lì che sei tu, non sarà mai facile, ma prima o poi è necessario.

La musica al cinema: l'Adagio di Samuel Barber


Giuliano
Non so bene quante volte sia stato usato, al cinema, l’Adagio per orchestra d’archi di Samuel Barber (americano, 1910-1981). E’ un brano breve, facilmente riconoscibile soprattutto per la sua bellezza: colpisce subito, entra in memoria e non lo si dimentica più. Viene di solito usato nei momenti drammatici ma pieni di pathos, come nel film di guerra “Platoon” di Oliver Stone; ricorda molto gli “adagi” e i tempi lenti di Haendel, o quelli di Mahler; ed è bello quasi quanto quelli scritti dai grandi compositori del passato.
Barber ha scritto tre volte il suo Adagio: l’originale come movimento di un Quartetto (op.11), poi la versione per orchestra d’archi, infine ne ha trasferito la melodia in un “Agnus Dei” per coro. E’ un compositore importante, uno dei primi grandi musicisti americani, autore di opere come “Vanessa” (1958, ancora in repertorio) e “Antonio e Cleopatra” (1966). I critici gli rimproverano la vena ottocentesca, cioè di essere rivolto al passato; ma a noi posteri la cosa non interessa più di tanto, perché in questo anno 2007 anche Arnold Schoenberg e György Ligeti ormai appartengono al passato.

L'Adagio di Barber c'è anche in Amélie Poulain

mercoledì 25 luglio 2007

La valle del peccato

Vale Abraao di Manoel de Oliveira (1993) Da "Madame Bovary" di Flaubert attraverso "Vale Abraao" di Agustina Bessa-Luìs, Sceneggiatura di Manoel de Oliveira Con Leonor Silveira, Luis Miguel Cintra, Ruy de Carvalho, Luis Lima Barreto, Micheline Larpin, Diogo Doria, José Pinto, Felipe Cochofel, Isabel Ruth Musica: Bach, Beethoven, Fauré, Debussy, Schumann, Chopin, Richard Strauss, Don Byas, Coleman Hawkins Fotografia: Mario Barroso (187 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
Questo film mi ha permesso di sfatare un mito: l'infallibilità di IMDb.
Prima di tutto, fra gli undici film ispirati a Madame Bovary non mette questa, che è Ema, non Emma. E' vero che c'è il tramite del romanzo della Bessa-Luìs, ma la derivazione da Flaubert è evidentissima. Aggiungo che fra le undici Madame Bovary ce n'è una con Edwige Fenech nella parte della protagonista, sarei assai curioso di vederlo e raccontarlo.
In secondo luogo, molto stranamente, indica solo Debussy e Strauss fra i musicisti, mentre ce ne sono diversi altri, e quando in qualche modo sarò riuscito a procurarmi i titoli dei brani di ognuno, li riporterò in un post da inserire ne La musica al cinema.
Questo grande film non è solo cinema, è un incontro di arti.
La letteratura, anzitutto. La voce che si sente più di frequente è quella di un narratore (doppiato benissimo da Aroldo Tieri) che segue/precede con le sue frasi quello che succede sullo schermo. E' un accompagnamento diffuso, ma non pedante né didascalico, ci aiuta a capire quello che le immagini ci mostrano. Questo si capisce meglio se si sa che è stato de Oliveira a chiedere a Agustina Bessa-Luìs di scrivere il romanzo "Vale Abraao", il che significa che in un certo modo il film è nato prima del romanzo. Potrebbe essere che a de Oliveira servisse una personalizzazione etnica e geografica di Flaubert, su cui potersi muovere più a suo agio.
Poi la musica, di cui ho già accennato. Molti dei brani riguardano il Chiaro di luna, certamente quelli di Beethoven, Fauré, Debussy, credo anche quello di Schumann e di Chopin. Sono brani lunghi, quindi già vi immaginate la voce del narratore, le voci e le immagini dei personaggi, le musiche in una fusione polifonica rara. Viene voglia di avere pure la musica profumata di cui si occupò Scriabin!
Poi la pittura, con un paesaggio singolare del Nord del Portogallo attorno al fiume Douro che ha l'estuario ad Oporto, un paesaggio ricco d'acqua, con colline ripide ma coltivate in gran parte a vigneti. E anche di questo racconterò.
Infine il cinema, un grande cinema come recitazione, a partire dall'attrice simbolo del cinema di Oliveira, Leonor Silveira, ma anche come ambienti, come costumi, con un tono classico ma anche con aspetti molto moderni. Il libro di Flaubert fa capolino all'inizio del film fra le mani di Ema giovanissima, rimproverata perché fa quel tipo di letture. Un ambiente alto-borghese senza rischio di generico cosmopolitismo, ben radicato in quel mondo geografico.
La cosa in assoluto più straordinaria del film è che ne esce una grande esaltazione di Ema, non come donna tardo-romantica, ma come donna che ha in sé il suo destino di non accettazione del mondo come è, ma di un mondo sognato, pensato, sentito che opera perché diventi una sua realtà assolutamente vissuta.
Ema vive sul confine, oltre il confine, non per debolezza, ma per forza di cuore, di cervello e di corpo, compresa la leggera zoppìa che è come il segno del destino su di lei impresso dalla nascita. Per tutto il film, nei vari eventi riguardanti i tre amanti, i rapporti col marito e con le due figlie, le difficoltà economiche, perché spende come l'Emma di Flaubert, in lei rimane una completa dignità, una accettazione totale del suo destino che non può né vuole mutare. Questo dietro il viso dolcissimo e duro di Leonor Silveira che nesssuno riuscirà a piegare.
Ma si badi, non è un rovesciamento di Flaubert, ma uno sviluppo. Flaubert aveva fatto il necessario lavoro sporco della rimozione di tutto il sentimentalismo ed il romanticume, la presa d'atto del realismo.
La domanda che esce da questo film è: sic stantibus rebus, che cosa ne facciamo della nostra vita? Ema la sua la spende con tenacia per vivere un suo impossibile sogno nella realtà condizionata che si trova a vivere. Ema è amata dalla scrittrice e dal regista, cosa che non era per l'Emma di Flaubert e di Chabrol.
L'ho trovata una operazione convincente in un film che sarà visto e rivisto, sempre più apprezzato nel tempo. Quando l'ha fatto, Manoel de Oliveira aveva 86 anni, ancora oggi sta facendo film. E' lungo tre ore e sette minuti, non poco, va visto in una serata in cui non ci siano distrazioni, è una fatica che varrà un ricordo che non si cancella, non solo dal punto di vista artistico in senso stretto, ma come visione di vita: Ema è qui con noi, nella nostra vita individua.
Consiglio a tutti - a tutte, soprattutto - di leggersi le tre splendide recensioni a caldo di Lietta Tornabuoni, Roberto Escobar, Tullio Kezich. Le trovate nel benemerito sito Mymovies, che è fra i nostri siti consigliati. Sono recensioni in cui è assente la routine, fatale in chi fa quel mestiere, credo che siano usciti dal cinema contenti di poter scrivere quello che poi hanno scritto.
Tre temi compaiono: quello di Ritinha (Isabel Ruth), la lavandaia sordomuta che è l'unica a capire ed ad amare pienamente Ema, quello della rosa e del dito che nella rosa penetra, quello del gatto, che Carlos Paiva, esasperato, strapperà dal grembo della moglie per gettarlo contro l'obiettivo. Il chiaro di luna, la rosa, il gatto, la sordomuta veggente, la zoppìa di Ema. Tout se tien.